Oggi lavorare nella stessa città in cui si risiede non è così scontato e può considerarsi a pieno titolo una “fortuna”: traffico permettendo, minore è il tempo impiegato per raggiungere la sede della propria occupazione, maggiore è la disponibilità di tempo da utilizzare per coltivare i propri interessi. Eppure in qualunque momento può giungere la fatidica comunicazione di “trasferimento” e non sempre essa è ben accetta dal destinatario, specie se non soddisfa una sua autonoma istanza (avvicinamento al coniuge, per esempio) e viene decisa unilateralmente dal datore di lavoro per far fronte ad esigenze dell’impresa.
Ben inteso: la scelta relativa al trasferimento della prestazione lavorativa da una unità produttiva ad un’altra dev’essere sempre sorretta da ragioni tecniche, organizzative e produttive (art. 2103 Cc) che tuttavia possono essere significate anche solo oralmente (sebbene si preferisca nella contrattazione collettiva non solo una partecipazione scritta quanto anche un periodo di preavviso, possibili indennità, ecc.) e addirittura non contestualmente alla comunicazione. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale, infatti, ai fini dell’efficacia del provvedimento di trasferimento non è necessario che vengano enunciate le esigenze (che possono attenere sia l’unità produttiva “di partenza” che quella “d’arrivo”) alla base della decisione bensì che queste, ove contestate, risultino effettive e di esse il datore di lavoro ne possa dare prova (Cass. civ. Sez. lav. n. 8268/2004). L’onere scatta, invece, nel momento in cui il prestatore ne faccia esplicita richiesta: le sezioni unite della Cassazione hanno infatti stabilito che nel caso di specifica domanda, il datore debba entro 7 giorni provvedere a comunicare per iscritto i motivi del trasferimento al lavoratore (così applicando analogicamente i termini di cui all’art. 2 della legge 604/96 in materia di licenziamenti).
Se si tratta di trasferimento interno, ossia nell’ambito della stessa unità produttiva, non occorre, invece, che il provvedimento sia argomentato da ragioni tecniche, organizzative e produttive ma eventualmente bisognerà attenersi alle disposizioni della contrattazione collettiva applicata in azienda. E a proposito della nozione di unità produttiva, si considera tale ogni articolazione autonoma dell’azienda avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare in tutto o in parte un’attività dell’impresa medesima della quale costituisca una componente organizzativa connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell’attività produttiva aziendale. Nulla rileva, insomma, la presenza o meno di distanze geografiche tra un’unità produttiva ed un’altra. Da segnalare inoltre che la giurisprudenza da una decina d’anni a questa parte riconosce legittimità al trasferimento per incompatibilità aziendale.In buona sostanza, integra una di quelle ragioni tecniche, organizzative e produttive il fatto che comportamenti soggettivi del lavoratore, in contrasto con l’ambiente lavorativo, spingano il datore a trasferirlo altrove.
Non è dunque necessario (ma possibile dalla CCnl) rispettare alcun requisito formale ai fini della comunicazione di trasferimento né tanto meno è necessario il consenso del lavoratore volto ad approvare la nuova sede di lavoro. Un’accettazione in tal senso, invece, è richiesta dalla legge nei casi di trasferimento del prestatore da una società ad un’altra dotata di personalità giuridica propria sebbene appartenente al medesimo gruppo (per esempio una società-figlia). In questo caso, mutando non solo il luogo di lavoro ma anche il datore di lavoro, trattandosi di una vera e propria “cessione del contratto”, necessario sarà il consenso del lavoratore “ceduto”.
E dal trasferimento va tenuto distinto il “distacco” o “comando” che si verifica ogniqualvolta un lavoratore viene inviato presso un’altra società destinataria delle sue prestazioni lavorative. Il decreto attuativo della Riforma Biagi ha per la prima volta disciplinato la fattispecie sottolineando alcuni requisiti di legittimità: la temporaneità del distacco (da intendersi come “non definitività” indipendentemente dalla durata, breve o lunga, del distacco); l’interesse del datore di lavoro distaccante ad impiegare in tal modo l’opera del proprio dipendente; la necessità del consenso del lavoratore tutte le volte in cui il comando comporti un cambiamento di mansione; ed infine la presenza di ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive tutte le volte in cui il distacco comporti il trasferimento ad una unità produttiva sita a più di 50 Km da quella a cui il lavoratore è adibito.
Il trasferimento illegittimo per mancanza di ragioni tecniche, organizzative e produttive è nullo e come tale improduttivo di qualsiasi effetto, e potrà essere impugnato dinnanzi al Tribunale del Lavoro al fine di riprendere servizio nell’unità produttiva di provenienza. È opportuno sottolineare che il lavoratore che si fosse rifiutato di assumere servizio nell’unità produttiva cui sia stato destinato, e che continui ad offrire la propria prestazione nel luogo dove la svolgeva in precedenza, non potrà essere sanzionato in quanto la sua è considerata a pieno titolo una reazione legittima all’altrui inadempimento.
E rispondendo ai quesiti prospettati occorre evidenziare nel primo caso che il datore di lavoro non è obbligato ad illustrare le ragioni del trasferimento (che comunque devono sussistere per ritenere legittimo il provvedimento); nel momento in cui però il dipendente ne faccia richiesta espressa, egli dovrà provvedere ad esporre le motivazioni per iscritto entro 7 giorni dalla domanda. Nel secondo caso il lavoratore può essere distaccato ad altra azienda senza necessità di esprimere il proprio consenso salvo nel caso in cui il trasferimento comporti un cambio di mansione. Solo in quest’ultima ipotesi sarà necessaria, infatti, la sua accettazione.