«Alla pizzeria qui all’angolo non danno più gli stuzzicadenti. Dicono che è perché i clienti se ne portavano sempre via uno» chiosa Groucho Marx nel n. 73 di Dylan Dog dell’Ottobre del 1992. Questa sua freddura ci porta dritti all’argomento del post: la customer experience e i social network. Mi piacerebbe riflettere, insomma, con voi su che cosa avviene ai clienti in un negozio, in un bar, in un hotel ecc. Qual è la loro percezione del servizio e quali pratiche mettono a punto le imprese per farli diventare non solo clienti soddisfatti ma addirittura ambasciatori del brand e arrivare a questo punto a bypassare l’intermediazione da parte di portali e affini. Ambizioso? Sì. Possibile? Anche.
Ma andiamo per gradi. Da dove partire? Con gusto da un’altra battuta del celebre personaggio del fumetto che ho citato prima: «Alla pizzeria qui all’angolo si mangia così male che il cameriere dà la mancia ai clienti!» (Freddura di Groucho presente nell’albo mensile Dylan Dog N. 62 – Novembre 1991) . Mi pare chiaro che se avete una cucina o un hotel da incubo forse dovreste rivolgervi a Cannavacciuolo & Co. Se, ad esempio, cucinate con tonnellate di olio nel piatto, panna da cucina in quantità industriali, fate confusione tra le commesse e nel vostro locale ci sono:
il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,
i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,
un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,
gli oggetti col mònito salve, ricordo, le noci di cocco
come nella poesia L’amica di nonna Speranza di Guido Gozzano dovreste farvi qualche domanda e darvi delle risposte, come nella migliore delle tradizioni di Gigi Marzullo. Quindi il primo indispensabile ingrediente che qui non può mancare nella nostra ricetta è un’autentica passione nei confronti della clientela. Perché aggiungo autentica? Lasciate che vi racconti due o tre aneddoti personali.
Il 1992 non è solo l’anno del fumetto della Bonelli che ho citato all’inizio del post. Purtroppo è anche l’anno in cui muoiono prima Falcone e poi Borsellino. Quest’ultimo fu assassinato nel mese di Luglio. In quel periodo lavoravo come cameriere (e banconista a volte) in un hotel a San Pietro in Bevagna, in provincia di Taranto. In un pomeriggio accaldato si presenta un cliente e chiede un long drink. In quell’hotel un certo numero di long drink erano compresi nel prezzo del soggiorno. Mi metto all’opera e gliene preparo uno con i fiocchi, sotto gli occhi del figlio del proprietario. Una volta andato via il cliente, quest’ultimo mi si avvicina e mi dice: «Ti rendi conto di quanto ci costa il long drink che gli hai preparato? In questo modo tu ci fai rimettere». Per la cronaca quel cliente quando andò via mi lasciò cinquanta mila lire di mancia (non c’era ancora l’euro) mentre si lamentò dell’albergo (non c’era ancora Trip Advisor). Secondo voi chi ha saputo fare customer care con lui? L’allora cameriere diciottenne quale ero io o i proprietari dell’albergo?
Questi ultimi quasi mai hanno la lucidità giusta per dirigere bene la struttura che è nelle loro mani. Tendono ad essere rigidi e quindi a fare danni. Come nel prossimo aneddoto che sto per raccontarvi e che si è verificato nel giugno di quest’anno. Mi sono intrufolato in un villaggio turistico a Campomarino, nel Molise, dove ho avuto una breve esperienza da capo-animatore. A ridosso della spiaggia avevamo una cassa per mandare la musica necessaria alle attività di animazione. C’erano degli sdrai che venivano investiti in pieno dalle onde sonore e per diversi giorni sono stati occupati da persone che gradivano poco la musica e ancor meno le attività proposte. Ci hanno quindi chiesto di abbassare il volume e li abbiamo subito accontentati. Così facendo, però, altri ospiti che invece gradivano la musica si sono lamentati dicendo che il volume era troppo basso e l’animazione, di conseguenza, moscia. Queste lamentele a più riprese sono arrivate in direzione e allora il proprietario direttore ci ha fatto girare la cassa leggermente di lato e con un volume un po’ più basso. Sapete quale delle due fazioni è rimasta contenta di questa decisione? Nessuna. Era evidente che il direttore (Dio lo abbia in gloria) stava cercando di accontentare tutti rimanendo rigidamente sul problema. A nessuno è venuto in mente di proporre alla famiglia che non gradiva la musica di avere a disposizione uno sdraio e un ombrellone lontani dalle fonti sonore.
Che cosa vuole un cliente? Come posso accontentarlo senza fare salti mortali? Queste sembrano domande scontate ma sono in tanti a non farsele o a dare loro una risposta priva della necessaria flessibilità. Quando ero bambino i miei genitori gestivano un distributore di carburanti. L’ispettore della ditta che ci riforniva di tanto in tanto veniva a farci visita e per me, che avevo meno di cinque anni, ogni volta era una festa perché mi regalava o un pallone o un giocattolo. E i miei anche erano contenti perché viste le ristrettezze dell’epoca non tanto se lo potevano permettere. Il gesto di quel nobile signore non era né dovuto né contrattualizzato. Voleva solo fare qualcosa di gradito. Ed era molto avanti rispetto a tanti.
Ma forse ancor prima di chiederci che cosa vogliono gli avventori del nostro negozio, per esempio, o del nostro chiosco ambulante faremmo bene a farci un’altra domanda un po’ più a monte. E cioè: «Chi sono i nostri clienti?». Perché è chiaro che se li consideriamo come coloro che vengono solo a farci impazzire, come pure ho sentito dire a dei commercianti, credo che faremo davvero poca strada o se la faremo ci costerà insostenibile stress. Che dire poi del classico “il cliente ha sempre ragione”? Davvero dobbiamo considerare i nostri compratori come coloro che hanno ragione in ogni occasione? Se la mettiamo così i clienti saranno molto contenti mentre i dipendenti no. Del resto quel detto è nato in realtà come slogan pubblicitario negli anni ’50 negli Stati Uniti. E a pensarci bene non ci serve a gran ché visto che il teatro delle nostre azioni non è il tribunale ma il punto vendita. Meglio, quindi, considerare i clienti come patrimonio dell’azienda, uno dei più importanti. Non è un caso che esista l’espressione “portafoglio clienti” riferita agli acquirenti di un venditore. Ancora meglio considerare un fatto elementare ma non scontato: siamo tutti clienti e quindi i primi clienti di un agriturismo, per esempio, o di un negozio per animali sono gli stessi proprietari. Questo cambia di molto la prospettiva come spiego nel paragrafo successivo.
Se io sono il primo cliente di un salone di bellezza, tanto per dire, pretenderò che si abbia la massima cura di me e delle mie esigenze. Se ne sono anche il maggiore azionista predisporrò tutto perché ciò avvenga. E farò in modo che ciò si verifichi anche per gli altri. E se proprio non vogliamo essere frequentatori delle nostre stesse attività siamo comunque clienti da qualche altra parte, anzi per la stragrande maggioranza del tempo siamo ospiti, habitué, pazienti di altri dai quali pretendiamo il massimo. Scatta quindi quella che si chiama “Etica della reciprocità” che il filosofo greco Talete riassumeva nella massima “Evita di fare quello che rimprovereresti agli altri di fare”. Si tratta del valore morale fondamentale alla base della convivenza civile comune a diverse religioni e filosofie di vita che Gesù di Nazareth nel Discorso della Montagna così esprime: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti». Altrove lo stesso concetto viene condensato nel più stringato: Ama il prossimo tuo come te stesso. E badate che non è tanto una questione teologica o religiosa, essa ha molto a che fare con gli affari se Dale Carnegie, grande formatore e uomo d’affari americano, ne parla nei suoi libri. Di recente ho letto Come trattare gli altri e farseli amici nell’era digitale. Un intero capitolo è dedicato a questo argomento. Esso inizia con la storia di Mike, un tassista di New York che attraversa l’intera città senza tassametro per portare un cellulare che il cliente aveva scordato in auto e prosegue parlando dei piccoli semi, dei dettagli, dei gesti che fanno la differenza. Sta in questi ultimi tutta la forza e l’efficacia di una customer care che funziona e che aggiunge valore alle attività e quindi produce reddito.
Tutti noi desideriamo lasciare un segno nell’universo o almeno stare in alto nella scala sociale o quantomeno nella considerazione altrui, sentirci davvero importanti insomma. In questo spesso ci serviamo di brand nei quali più o meno ci riconosciamo: esprimiamo la nostra identità maneggiando un melafonino, indossando un capo di Versace, scegliendo una catena di alberghi piuttosto che un’altra. E ancor più ci sentiamo al centro di tutto, come recitava una campagna pubblicitaria di qualche anno fa, se possiamo personalizzare le nostre esperienze. Pensiamo alla customizzazione delle moto Harley-Davdison che tanta fortuna ha avuto tanto da essere imitata da altre aziende che producono motociclette. I clienti di quelle celebri moto non cercano ferraglia di qualità da assemblare ma tre cose: storie, emozioni, libertà. Una triade, questa, comune a tantissimi settori commerciali, dai viaggi alle sigarette, dagli accessori ai profumi. Il vantaggio maggiore lo conquista quel team aziendale capace di immaginare e anticipare quel che io chiamerei il “taste of dreams” (malamente traducibile in italiano con il gusto dei sogni) dei potenziali consumatori. Assistiamo a quel che Mark J. Penn chiama “il trionfo dell’economia Starbucks” nel suo libro Microtrend (Sperling & Kupfer). Siamo nell’epoca della personalizzazione spinta dove il potere maggiore è passato ai piccoli gruppi, nel bene e nel male. Pensiamo, per un attimo, agli attentatori che stanno seminando panico e terrore in diverse località europee negli ultimi tempi. Ma pensiamo anche alle “Cougar” , le donne mature alla ricerca di partner sessuali più giovani, o ai Geek (coloro che nutrono spiccato interesse per le nuove tecnologie) oppure ancora ai “bamboccioni” per i quali non credo ci sia bisogno di spiegazione.
Esiste un modo per individuare questi gruppi o più in generale intercettare i desideri d’acquisto dei potenziali clienti e quindi potersi occupare della cura della relazione con loro tanto da farli diventare ambasciatori del nostro marchio? La risposta è sì e lo strumento è costituito dalle Buyer Personas, i profili tipo di acquirenti che è possibile stilare per pianificare le più adeguate azioni di marketing. Su come creare questi profili e perché c’è un’ampia letteratura di post in rete. Ormai l’argomento è stato sviscerato in modo piuttosto ampio e del resto richiederebbe ben più ampio spazio. Qui mi limito a sottolineare come la loro realizzazione permetta la gestione di migliaia e migliaia di clienti sotto il profilo delle decisioni strategiche e dell’operatività. Infatti è come se questi ultimi si riducessero a sei o sette personaggi con tanto di nome e cognome, provenienza, sesso e tutta una serie di informazioni che ci permettono di generalizzare senza perdere troppi dettagli. Sulla loro base tra l’altro, si possono realizzare delle ben calibrate campagna di web marketing su Google e Facebook. Perché il miglior modo di prendersi cura dei propri clienti è andarsi a cercare dei target ben delineati in precedenza. Da qui comincia la customer care che accompagnerà, poi, ciascun cliente in tutte la fasi del ciclo del prodotto o servizio.
Quali sono le altre fasi e come è possibile, dal punto di vista tecnico, che chi è stato ospite, ad esempio, di un bed & breakfast diventi un ambasciatore di questa struttura presso altre persone? Mi pare chiaro che la customer care da sola non possa essere insufficiente e comunque va organizzata per dei passaggi che provo a sintetizzare:
1. Ascoltare nei social media tutte le conversazioni possibili sulla nostra azienda, struttura, attività. E questo oggigiorno si può fare attraverso opportuni strumenti di social mention;
2. rispondere in tempi rapidi (inferiori all’ora, meglio entro la mezz’ora) e in modo sempre garbato e univoco ad ogni conversazione che ci riguarda;
3. agire, mettere in pratica gli input raccolti o rimediare a eventuali defaillance;
4. accompagnare le persone, sollecitarle alla condivisione di post che ci riguardano anche attraverso dei contest;
5. misurare con particolari metriche l’engagement dei nostri clienti.
Ora mi vorrei soffermare un po’ sugli ultimi due punti. Può essere, infatti, che sulla nostra ditta o attività commerciale non ci sia ancora alcuna conversazione in rete e che quindi non ci sia niente da monitorare. Se siamo operativi da tempo e le persone non ne parlano occorre farsela qualche domanda. In un’epoca in cui si recensisce ormai tutto appare piuttosto strano. Tuttavia ci si può trovare comunque nella necessità di dover avviare delle condivisioni, diciamo accompagnarle e qui un bel contest può esserci d’aiuto. All’inizio una novità va fatta conoscere e quindi deve essere data priorità a chi l’esperisce ed è disposto a parlarne ai suoi contatti e tutto ciò che può dare la giusta spinta, senza forzature, a questo può essere messo in campo. Se viceversa ci sono degli utenti che interagiscono con la pagina facebook, con il profilo twitter e che scrivono su Trip Advisor e su Google allora sarà necessario misurare il social engagement degli utenti. Qui ci sono ormai strumenti sempre più raffinati negli Insight stessi di Facebook e Twitter ad esempio. Una misura esterna e semplice da ottenere, che si può aggiungere, è il Net Promoter Score che misura soprattutto la fedeltà del cliente. Buona, idea, infine potrebbe essere quella di coinvolgere gli utenti più contenti ma anche qualcuno di quelli proprio non entusiasti pubblicando i loro endorsement direttamente nella home page del sito web principale della nostra attività.